L'aspettativa, si sa, in campo editoriale e non solo, a volte gioca brutti scherzi. Perché quello che ci aspettiamo da un autore dopo un suo imprevedibile e planetario successo è semplicemente di replicarlo.
E non siamo gli unici. Lo pretendono anche il suo editor, la casa editrice, i correttori di bozze, gli impaginatori, i grafici. Per non parlare della sua fidanzata, di sua mamma e dei suoi amici. Leggendo queste pagine in cui Paolo Giordano cerca di narrare in modo ipercontrollato qualcosa di assolutamente folle come un corpo umano nel macello della guerra, mi sono imposta di avere ben fissa nella testa la gigantesca spada di Damocle che incombeva sopra di lui. E forse con questa consapevolezza gli ho un po' bonariamente perdonato la perfezione assoluta delle frasi, dei pensieri, delle situazioni. Persino la contrapposizione tra nomi e cognomi, la divisione in tre parti del racconto, la circolarità di un finto ritorno alla normalità accanto a chi con noi ha condiviso un'esperienza decisiva. Eppure di Paolo manca il cuore. E non perché io desideri fare un confronto con La solitudine dei numeri primi (questo libro ne uscirebbe sconfitto in partenza). Certo è palese il fatto che per evitare questo confronto abbia scelto di raccontare tutt'altro, di costruire una storia a tavolino in modo che fosse perfetta e inattaccabile. Ma la narrativa di successo è questa? Io non credo. E penso che Paolo lo sappia bene, altrimenti non avrebbe reso tremendamente pulsanti sulla pagina i cuori di Mattia e Alice, altrimenti si potrebbe dire, ok è un buon libro di narrativa, progettato bene, scritto decentemente, avvincente al punto giusto. Ma Paolo Giordano è molto, molto di più di un romanzo troppo studiato e finalizzato alla vendita in quantità massiccia al supermercato. O no?